Fuori luogo, nove anni fa

Dal blog “Il luogo fuori luogo” – 29 novembre 2011

Perché fuori luogo, potreste chiedervi.
Innanzitutto, perché andiamo ad abitarci, “fuori luogo”: in una casetta nei boschi, senza vicini, in una valle i cui abitanti fissi sono riassumibili in un numero di una sola cifra.
In una società abituata a considerare “luoghi” solo quelli dell’abitato, quelli odorosi di attività umane in fermento, in cui la vita scorre rapida e continua, andare ad abitare oltre i margini di tutta quest’attività equivale a perdersi nel nulla.
Ma l’idea è dovuta anche a un istante della mia vita, emblematico di molti altri istanti che mi e ci siamo trovati a vivere.
Dopo alcuni mesi di lavoro, sembrava che per me ci fosse la possibilità di ottenere un contratto a tempo determinato.
Io chiesi subito di ottenere un lavoro part-time. Fui convocata urgentemente all’ufficio contratti e sottoposta a interrogatorio: ricordo le tre segretarie sedute attorno a me, con espressioni sbalordite e un po’ infastidite, che mi chiedevano a ripetizione perché mai desiderassi un contratto part-time. Non avevo figli cui badare o altre esigenze familiari. Dunque, qual era il problema?
Cercai invano di spiegare loro che avevo intenzione di dedicarmi ad altre attività – che mi piaceva scrivere e che avrei voluto dedicarmi alla mia casa – ma loro rimanevano profondamente perplesse. Avevano l’aria di considerarmi una traditrice. Contraddicevo la loro immagine del giovane contrattista che pur di guadagnare più soldi è disposto ad ammazzarsi di lavoro.
Esprimere la volontà di guadagnare l’indispensabile e dedicare una fetta più grande possibile del proprio tempo a se stessi e ad offrire servizi gratuiti alla propria famiglia e alla società appare certamente fuori luogo. Infastidisce le coscienze.
So che il mio discorso potrebbe suscitare polemiche. Ci sono famiglie, anche in Italia, che vivono in povertà. Quella vera, che non è il potersi permettere solo un cellulare di pessima marca e non comperarsi il televisore al plasma. Il mio discorso non riguarda coloro che sono veramente poveri: riguarda tutti gli altri.
Il fatto è che persino chi non avrebbe bisogno di guadagnare cifre enormi per vivere sente il dovere di farlo. A meno di perdere… che cosa? La credibilità sociale, un ruolo, il potere, la stima di sè.
Noi non sentiamo questo bisogno. Il minimo ci basta.
Noi vogliamo restarci, fuori luogo.

Di terra, d’acqua, d’alberi

Da piccola, nel giardino dei miei nonni, vivevo in una città d’alberi.
Il più maestoso era il gigante ciliegio, dalla scorza scura e slabbrata. Arrampicarlo non era facile: bisognava aggrapparsi all’unico ramo sufficientemente basso, portare in alto le gambe, appendersi al ramo con le gambe e poi tirarsi su a forza di addominali. Ma una volta salita potevo accoccolarmi tra le sue braccia, appoggiando la schiena al tronco che continuava su, su, e agganciava l’universo. Ricordo di essere stata lì in una nevicata di foglie d’autunno: un rito, l’istante sacro in cui il vento porta un po’ di cielo alla terra.
Ognuno degli altri alberi, più piccoli, aveva la propria personalità.
C’era il melo, che le potature avevano reso contorto, con un ramo a gomito fuori dalla mia portata che potevo raggiungere solo se avevo il coraggio di saltare nel vuoto dalla biforcazione dei rami. Quando non capitombolavo a terra ma lo raggiungevo era una gioia spenzolarsi e poi, nel punto più alto dell’oscillazione, lasciarsi cadere a terra, per correre subito dopo al cedro del Libano, con il ramo diritto ideale per appendersi a testa in giù.
C’erano i pruni, esili ma alti, su cui giocare ad arrivare sempre più su.
C’era il pero. “Sul pero no, è troppo fragile”. E allora il pero non si toccava, perché anche la società della natura ha le sue regole.
C’era un altro cedro del Libano davanti alla scalinata d’ingresso, col tronco grandissimo e diritto, che abbracciavo. Dovette essere tagliato perché le sue radici si erano insinuate sotto il lastricato e lo spingevano verso l’alto, sbriciolandolo. Fu per me un lutto, come sarebbe stata, anni dopo, la scomparsa dell’amata campagna che stava dietro casa, distrutta da macchine rapaci per far spazio a un centro commerciale proprio in primavera, con i fiori sbocciati sui rami: l’innocenza che si mostra per essere sacrificata.

Ho sempre sentito bisogno degli alberi. Credo che il contatto con la natura e, in particolare, con gli alberi ci renda più saggi e centrati. Penso che i bambini, tutti, debbano crescere vicino alla natura – che questo dovrebbe essere un loro diritto riconosciuto.

Se c’è una cosa che mi posso riconoscere è che nella mia vita ho sempre cercato di fare scelte coerenti con ciò che sentivo, anche quando questo comportava un costo o un sacrificio.
Così è nata anche la mia famiglia: dalla terra, dall’acqua, dagli alberi.

Delle partenze e dei ritorni

Dal blog “Il luogo fuori luogo” – 11 novembre 2011

Siamo in partenza.
Il viaggio non è lungo – sei minuti di macchina dal fondovalle.
Il viaggio è lungo – una distanza enorme, che abbiamo appena appena accennato a creare tra noi e un modo di vivere il mondo, l’ambiente e la vita sociale in cui non ci riconosciamo.
E’ lungo perché è innanzitutto un viaggio in noi stessi, nel mondo che è stato creato dentro di noi da anni di lezioni e compiti in classe, illusioni, promesse, notizie. Il pacchetto all inclusive che qualsiasi cultura ti fornisce per affrontare la realtà, e nel quale è immancabilmente compreso uno sguardo su quella stessa realtà.
Andremo a vivere in una casetta nei boschi, comperata grazie ai frutti delle fatiche dei nostri genitori e ristrutturata grazie ai frutti delle nostre fatiche – i nostri stipendi e i nostri finesettimana degli ultimi due anni, trascorsi tra muri da abbattere e muri da costruire e TUTTO QUELLO che sta nel mezzo.
La Casa è al centro del nostro personale progetto di decrescita felice, della nostra utopia di una vita meno economica e più sociale, in cui lavorare meno per conto terzi e più per noi stessi, conservando più tempo per le nostre relazioni sociali e per contribuire al miglioramento del mondo in cui viviamo.
Non si tratta di rinnegare ciò che siamo e siamo diventati, ma di filtrare il buono e progredire verso qualcosa di meglio: anche la nostra voglia di partire e ritornare è, in fin dei conti, prodotto della società in cui siamo nati, che tra l’altro ci ha permesso di avere un benessere tale da poter scegliere. Credo che una cultura sia una buona cultura nel momento in cui fornisce gli strumenti per superarne gli stessi presupposti: questi strumenti noi li abbiamo, e cercheremo di utilizzarli al meglio.
Anche questo bloggetto vuole essere un passo nella direzione che abbiamo preso: vorremmo potesse diventare uno strumento per coloro che desiderano, come noi, “riconvertirsi” in senso sociale. Lo utilizzeremo per riportare le nostre difficoltà, i nostri timori, ma anche le sperate soddisfazioni e gli auspicabili traguardi raggiunti. Facendoci pure, perché no, i conti in tasca, in modo da aiutare tutti coloro che intendono intraprendere il nostro percorso.
E questo per ora è tutto.

Fuori luogo

Erano tempi chiari. Di fiori d’albicocco e soffioni, di rivelazioni sulle potature e scoperte sulla vita dell’orto.

Di polverone in casa, operai pasticcioni che ci facevano venir voglia di salire sul tetto e farcela da noi, l’isolazione, rumore assordante di demolitore e finestre aperte sul gelo autunnale per far uscire la polvere.

Erano tempi eroici, di mamme e zie che davano la vernice sulle assi del tetto, di neo-laureate che imparavano la gioia di trafficare con l’impianto elettrico (… e quella volta che non avevo tolto la corrente prima di levare i capicorda dai fili…) e giovani ingegneri che imparavano a dare la malta sulle pareti.

Avevamo appena scelto la vita che ora è sempre più profondamente nostra e ne eravamo innamorati. Nella mia mente crescevo già, in mezzo a tutto quel fermento in casa e quella pace fuori casa, i figli che poi la vita ci ha regalato, e avevo deciso che avrei creato un blog per raccontare la nostra scelta e l’avrei chiamato “Il luogo fuori luogo”.

Oggi, che sono stabilmente fuori luogo già da sette anni, mi trovo spesso a spiegare la mia scelta di vita a curiosi, aspiranti, critici, dubbiosi. Così ho deciso che, poco alla volta, ripubblicherò quei post qui, nel mio blog, sperando che possano servire a mettere qualche pietra sulla strada di chi si è appena incamminato.

Che dire della nebbia

Che dire della nebbia, che cancella facendo rimanere, che fa il vuoto ma è piena di tutto. Un tutto che si svela all’improvviso, ed è già svanito prima di essere riuscito a stupirci fino in fondo.

Che dire della nebbia, che mi fa camminare incerta nel bosco di ogni giorno, facendomelo riscoprire in nuovi alberi, nuove umidità muschiose, nuove voci di ruscello. Che rende lontane le cose vicine e mescola suoni e odori.

Che dire della nebbia, che fa da rifugio a due che parlano, in questo vuoto-pieno-di-tutto che è la Valle oggi.

Che dire della nebbia, se non che l’ho sempre amata. E che, finalmente, è entrata nei miei pensieri, è arrivata sul foglio e inizia a raccontare la sua storia… lei ha creato il palcoscenico: tra poco, in un soffio, arriveranno gli attori.